CUSTODE DEL PASSATO

 

 

Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone

 

U Thein Zaw, titolare della vecchia fabbrica di vetro Nagar a Yangon, racconta gli anni d’oro dell’attività della famiglia e di come, nel 2008, il cyclone Nargis ha distrutto la fabbrica e il sogno del padre

 

“Chi può dimenticare quella notte?  Era il 2 maggio del 2008 e, a differenza della quasi totalità della popolazione del Myanmar abbiamo saputo, da un nostro cliente, che il ciclone Nargis stava per abbattersi sul paese e abbiamo abbandonato la fabbrica. Meno male, perché il furore di Nargis  ha spazzato via tutto qui a Yangon.  Gli alberi e le capanne dove lavoravamo il vetro e dove avevamo i fornaci, e i magazzini con in giacenza centinaia di migliaia di vetri pronti sono andati tutti distrutti.  E ci siamo trovati senza la nostra attività, che già l’anno prima avevamo dovuto ridimenzionare, per il forte aumento del costo del gas che serviva per le nostre fornaci”. Ciò che resta oggi dell’ex fabbrica Nagar – “Mio padre nacque di sabato sotto il segno zodiacale del drago, e quando aprì la fabbrica la chiamò Nagar che nella lingua birmana significa drago” -  è celato dietro un alto muro  su una strada poco trafficata non lontana dal Lago Inya alla periferia di Yangon, la città principale e l’ex capitale del Myanmar.  Lungo un sentiero, nascosto nella fitta vegetazione che si estende per oltre un ettaro, in una vecchia casa di legno vive, con le sue sorelle e nipoti, U Thein Zaw, un signore sorridente e garbato che veste la tradizionale longyi, parla un ottimo inglese e racconta con passione la storia della sua famiglia.

“I nostri vetri – piatti, vasi, bicchieri, vassoi, ciottoli, piatti, statue ma anche figure da presepe e pezzi degli scacchi – erano molto apprezzati, producevamo per le ambasciate ed esportavamo anche verso paesi come il Giappone e la Thailandia”.  Molti i pezzi unici prodotti dalla fabbrica, e U Thein Zaw ci ha mostrato due curiosità. Dei bicchieri da vino ordinati da una cliente che li voleva senza la base dello stelo perché stanca di raccogliere i bicchieri che il marito lasciava in giro per casa.  “Abbiamo anche ideato un bicchiere con due calici su un unico stelo. Festeggiando a Capodanno si beveva prima da un calice per salutare l’anno che se ne andava poi, girando il bicchiere, si versava lo spumante nell’altro calice e si brindava all’anno nuovo.” Tra i personaggi famosi che hanno visitato la fabbrica l’astronauta John Glenn e anche un gruppo di vetrai di Murano. “Quando questi signori hanno visto la nostra produzione ci hanno fatto tanti complimenti, dicendo che i nostri vetri – tutti soffiati a mano e anche ispirati ad artisti occidentali –  erano più belli di quelli prodotti sulla loro isola”.

Oggi nel sottobosco dei giardini ci sono i resti delle capanne, macchinari corrosi, le vecchie fornaci distrutte e la macchina arrugginita del padre, una Vauxhall Luton del 1937. E senza soluzione di continuità vetri colorati blu, turchese, verde, viola, marrone e trasparenti, incrinati, crepati, spaccati e ridotti in frantumi, testimoni silenziosi e struggenti di anni di duro lavoro e sacrificio. “La passione per il vetro l’abbiamo ereditata da mio padre che ci ricordava sempre che è la terra a creare il vetro perché nasce dalla sabbia con l’aiuto del fuoco,” indicando un polveroso cartello sopra la porta che raffigura una mano con un pugno di sabbia e pezzi scintillanti di vetro. “Noi vetrai, diceva Papà, eravamo solo degli strumenti. Strumenti ingegnosi aggiungo io, come mio zio che fece gli occhi per il famoso Buddha Sdraiato, una delle attrazioni più visitate di Yangon. Ogni occhio è lungo un metro e settanta e lo zio, che era un perfezionista, buttò via le prime due prove perché secondo lui avevano dei piccoli difetti, e non erano degni di una statua del Buddha”.

Nella vecchia casa la famiglia vive sospesa nel tempo, custode di un’altra epoca e di un numero incalcolabile di vetri incrinati che coprono ogni superficie, dai tavoli alle mensole, dentro vecchi mobili e negli angoli. Fuori, nella giungla verde e incolta il tappetto coloratissimo di vetri frantumati e fracassati si presta a un’appassionante caccia al tesoro, perché è ancora possibile trovare dei pezzi che non abbiano subito danni disastrosi. Con l’unico macchinario ancora in uso, una levigatrice, le nipoti di U Thein Zaw  ne amorevolmente levigano le parti taglienti, e così per pochi dollari chi ha avuto la fortuna di imbattersi in questo luogo incantato se ne va con un ricordo prezioso e, nel cuore, la storia della Fabbrica Dagon e di U Thein Zaw, testimone fiero e tenace di un mondo antico svanito.