Emma Viscomi
Percorrendo la Statale delle Serre, nel tratto tra Soverato e Chiaravalle, in provincia di Catanzaro, all’improvviso, dopo l’ennesimo tornante in salita, l’occhio è catturato da una costruzione imponente, massiccia, insolita nel resto del panorama perché antica. La curiosità è tanta. La voglia di arrivare sotto le mura non è adeguata alla prudenza alla quale invita la strada, giù per la scarpata. Eh sì, perché l’oggetto del desiderio, così ben in vista dall’alto, si trova in una fetta di terra che rievoca subito il senso del dovere e del sacrificio, proprio dei primi residenti della zona: i monaci agostiniani seguaci di Padre Francesco Marini. Il monastero è interessante dal punto di vista architettonico ed ecclesiastico. La fondazione risale al 1510 mentre secondo altre attendibili fonti al 1492. A quel tempo il territorio apparteneva a Soverato ed era compreso nel Principato di Squillace, a sua volta governato dalla Signoria dei Borgia. Il futuro beato Francesco, nato a Zumpano, in provincia di Cosenza, si dedicò alle opere di bene ed a quelle intese a sviluppare la sua comunità e tutte le attività da essa dipendenti. Ebbe così inizio il dissodamento del terreno ed una apprezzabile attività agricola durata tre secoli.
Il Borgo attuale sorse attorno al cenobio originario su struttura precedente al XV secolo. Misura 40 metri per 34. E’ formato da un corpo unico, disposto su quattro lati con al centro il cortile, nel quale si trova la cisterna per la raccolta dell’acqua, un tempo utile, oggi interrata. Il porticato è costituito da alti pilastri ed archi a tutto sesto. Per la costruzione, si utilizzò legname e pietra locale. Vasche e fontane adornano i giardini su cui proiettano la loro ombra benefica alberi secolari. Nella sala del filatoio, si ammirano archi in pietra e laterizi. Per i mattoni, il rifornimento si effettuò in una fornace rimasta in funzione per secoli ed ancora in sito. E per secoli durò il culto di Padre Francesco, che visse e morì nel luogo oggi detto Convento di Santa Maria della Pietà, o più semplicemente Pietà, per via della statua omonima, realizzata da Antonello Gagini, nel 1521. Passeggiando tra sale ed androni, tornano in mente storie autentiche e leggende popolari fiorite attorno all’antico luogo, dove finché fu in funzione vigeva la regola degli Agostiniani riformati Zumpaniani. Una riguarda proprio la statua dello scultore siciliano, contesa dagli abitanti di Soverato e di Petrizzi.
Per evitare preferenze e recriminazioni, si arrivò a questa determinazione: porre il blocco marmoreo su un carro ed accettare la destinazione decisa, in piena autonomia, dalla coppia di buoi che lo trainavano. Arrivati ad un bivio, i mansueti animali s’indirizzarono verso Soverato, nella cui Chiesa Matrice di Maria SS Addolorata si trova oggi il capolavoro in questione. Nonostante la lontananza dal mare, i turchi saccheggiarono più volte convento e campagne circostanti. Non furono da meno le truppe napoleoniche, che nel 1806 misero a ferro e fuoco quanto era rimasto in piedi dopo il terribile terremoto del 1783 e ne determinarono la chiusura. Secondo una leggenda, un uomo, nel momento del pericolo, pensò di trasferire altrove la cassa in cui riteneva fosse custodito un tesoro. Quando si accorse di essersi impadronito delle ossa del povero frate, morto in odore di santità, si affrettò a restituire il mal tolto al parroco, che seppellì in Chiesa reliquie e reliquario. Con il risultato, che non furono più trovati. Qualche decennio dopo la fondazione, il Convento, fornito di 20 camere e 13 dormitori, era occupato da 6 sacerdoti, 3 chierici laici professori, 8 domestici e 13 garzoni.
Oggi le cose sono cambiate. Le 18 camere della struttura rispondono ai canoni di un hotel di charme, con arredi a tema nelle stanze destinate agli ospiti, e servizi adeguati e curati nei saloni di ricevimento del piano terra. Il restauro, condotto con rigore e criteri ottimali, è stato eseguito, dopo anni di semi-abbandono, sotto la tutela della Soprintendenza ai Beni culturali, una volta dichiarato l’intero complesso ”bene d’interesse storico ed artistico nazionale”. Carattere intimo ha la piccolissima cappella del Chiostro. Molto più grande è invece quella adatta a funzioni religiose, mentre l’esterna, ha i connotati di una vera e propria chiesa, dov’è possibile celebrare anche riti importanti.
Al lunghissimo lavoro di restauro, durato oltre vent’anni, ha partecipato, in prima persona, avvalendosi della sua qualifica di architetto e dell’amore per il sito, Maria Luisa Corapi, discendente diretta di Luigi Corapi, magistrato al tempo di Murat e dei Borboni, che acquistò dal Vescovo di Squillace, nel 1814, tutta la struttura semidistrutta e l’azienda agricola circostante, com’è attestato dalla lapide affissa, nel cortile del Convento, cento anni dopo. Un primo riadattamento ed uso garantì il rifiorire dell’agricoltura in zona, con partecipazioni e riconoscimenti importanti ottenuti in varie fiere nazionali. La fase più feconda fu a cavallo delle due guerre mondiali, con molti uomini e donne impegnati nel duro lavoro dei campi. L’esodo successivo agli Anni ‘60, portò ad una crisi sembrata allora irreversibile. Inconfondibile, il rosso mattone dello scalo “Pietà”, istituito nel 1922 dalla Linee calabro- lucane, sul tronco Soverato- Chiaravalle, a qualche centinaio di metri dall’ex Convento, danneggiato dal terremoto del 1947, soprattutto sul lato sud.