TERESA CARRUBBA
“La gastrosofia applicata è una scienza itinerante” sostiene lo storico Franz Herre intendendo per gastrosofia quella disciplina che conduce il buongustaio all’affinamento della capacità di apprezzare i piaceri della tavola non solo attraverso la conoscenza delle premesse ma anche grazie alla tesaurizzazione delle esperienze, quelle proprie e quelle altrui. Non è rimanendo aggrappato al suo atollo di piatti elaborati nel segreto di tegami ammaccati dal tramandato uso familiare che il gourmand costruisce la propria evoluzione, ma peregrinando qua e là, nei sacrari della nouvelle cuisine con relative squisitezze, insalata di germano alla vinaigrette tartufata, ravioli d’aragosta e zucchine, serviti in civettuole composizioni che sono gioia per gli occhi, nei chioschi messicani sui cui piatti pittoreschi si schiudono scrigni di focaccia, le enchiladas, rivelando appetitosi ripieni di carne aromatizzata al coriandolo.
Nei separé tradizionali giapponesi dove pareti di carta di riso segnano l’atmosfera di delicatissimi bocconcini sushi o tempura in stoviglie quasi da bambola, nelle colorite tavole di Turchia e Grecia dove i profumi intensi del Mediterraneo sprigionano da roride foglie di vite, yaprak dolmasi, e da timballi esuberanti di verdure, mussakà. Nelle mense scandinave sulle quali padroneggiano filetti di aringa e di salmone persino nei succulenti panini aperti smorgasbord. Ed è in quell’eclettica e variegata forma di espressione di un popolo, la tavola, che si approfondisce il significato culturale di certe scelte gastronomiche locali strettamente connesse al costume e alle tradizioni oltre che, naturalmente, alla posizione geografica, al clima e alle risorse naturali. Un discorso a parte merita la grande cucina regionale italiana, aristocratica e popolare, pezzi di storia cuciti assieme da una comune tradizione del momento edonistico della tavola, dove i dispiaceri si placano in virtù della prepotenza del gusto. Chi può resistere a una fumante toscanissima ribollita col cavolo nero che rievoca gli odorosi vapori del paiolo in un casolare maremmano?
O davanti a un aristocratico cappon magro fitto di pesci pregiati e di erbe aromatiche prese in prestito a quel misterioso mazzolino nato nel segreto della brezza ligure? Oppure a uno stimolante piatto di puntarelle alla salsa d’acciughe, assolutamente romana come la sua nobile antesignana, la salsa garum, ricercato complemento per le pietanze dei banchetti della Roma imperiale? Il campanilismo gastronomico ha i suoi vantaggi perché fissa le pietre miliari delle tradizioni locali costruendo certezze per chi si reca in un paese e voglia condividerne i sapori. Tuttavia, la chiusura dei confini non ha mai giovato all’osmosi delle civiltà tra i popoli, tantomeno a tavola. Se la curiosità di Cristoforo Colombo non lo avesse spinto a stipare le caravelle di pomodori, mais, peperoncini e spezie, cosa ne sarebbe della mitica pizza napoletana, della po1enta infasolà di cui vanno orgogliosi nel Padovano o di certe salamelle calabresi urlanti di peperoncino? Nessuno può vivere come un’isola, nemmeno il gastronomo che, per dirla con Herre, deve fare il giramondo e osservare, assimilare, elaborare.
Ecco così la fusione ardita e abilissima di sapori e profumi diversi, l’inventiva continua, creare una cucina inusitata, un amalgama armonioso e gradevole. E da un talento fervido e preparato nascono timballi di varie culture, pietanze di tradizione familiare filtrate dall’esperienza oltreconfine. Salsine orientali annegano le nostre lattughe o i germogli di soia ormai compagni dei piatti macrobiotici. Il piatto unico, ovvero la praticità che si sposa alla fantasia, a una risonanza della cucina internazionale se si pensa alla paella o al cocido spagnoli e alle potées francesi, ai borchtsch russi o polacchi, con le dovute rivisitazioni all’italiana. Modellare al proprio gusto la cucina degli “altri” ci è ancora più facile visto il proliferare di libri sulla gastronomia regionale e internazionale, di boutiques dell’alto palato” ricche di ricercatezze provenienti da ogni angolo di mondo. Non ultimo le sempre crescenti occasioni di viaggiare anche a estreme latitudini. Tanto più in un momento come quello odierno in cui, con la nascita dell’unione Europea, sono state abbattute anche le ultime pareti divisorie.
L’eliminazione delle dogane, l’accelerazione dei trasporti e l’apertura totale all’interscambio portano con estrema facilità i nostri prodotti alimentari negli altri paesi europei e noi riceviamo i loro. E con essi circolano necessariamente le informazioni su come si gustano e come si cucinano. Si è quindi avviato un più costruttivo scambio di culture gastronomiche, oltre che di tecniche da cucina, che cementerà ulteriormente gli europei. Sarebbe certo interessante un gemellaggio tra Italia e Francia, da sempre depositarie di salde tradizioni culinarie. Un connubio promettente se si considera la sostanziosa semplicità di certi piatti italiani, avvolti da un sentore tutto mediterraneo e l’elaborata raffinatezza delle specialità francesi. Naturalmente, ci vuole talento.