Testo di Giulio Badini
Possono esistere molte buone ragioni per andare in Mongolia, uno dei paesi più integri in assoluto e dove la natura regna ancora ovunque sovrana, a cominciare proprio dal lungo viaggio per arrivarci se lo si compie partendo in auto dall’Italia. Un percorso di ben 15 mila chilometri, per la gran parte su piste polverose tra guadi e altissime montagne innevate dai nomi impronunciabili oppure in fuoristrada in mezzo al nulla, per il quale preventivare circa un mesetto per le imprescindibili soste tecniche e le visite turistiche e culturali imprescindibili, attraverso l’Europa centrale e orientale, quindi il Vicino Oriente e poi tutta la sterminata e misconosciuta Asia centrale, percorrendo a ritroso lo storico cammino della celebre Via della Seta, passando dall’occidente tecnologico ai disabitati verdi pascoli mongoli attraverso popoli e civiltà profondamente dissimili tra di loro e con noi. Un viaggio non privo di difficoltà di ogni genere, dai guasti alla vettura ai problemi di orientamento in regioni quasi disabitate ma con una babele di lingue, tra uomini che vivono in un’altra realtà spazio-temporale; proprio per questo inevitabilmente ricco di preziosi insegnamenti, capace di segnare la vita futura di quanti lo compiono. Se poi il tutto ha un intento benefico il merito aumenta ulteriormente, perché le buone azioni fanno bene prima di tutto a chi le compie. Questa è la fotografia del Mongol Rally, manifestazione non competitiva che si svolge da un decennio ogni estate con partenza dallo storico circuito automobilistico di Goodwood nel sud dell’Inghilterra (e anche da altre parti d’Europa) e arrivo dopo un mese ad Ulan Baator, capitale della Mongolia. Ai nastri di partenza oltre un centinaio di equipaggi tra auto e moto di bassa cilindrata (massimo 1200 cc per le auto e 125 per le moto) per contenere i consumi e l’inquinamento al minimo, su un percorso libero attraverso non meno di una dozzina di nazioni diverse, che prevede alcune tappe obbligate per la punzonatura.
E ad ogni tappa sono in programma manifestazioni ed incontri con la popolazione. Nessun vincitore e nessun premio, in quanto vincono tutti quanti riescono ad arrivare al traguardo (per gli altri pazienza, sarà stata comunque una bella esperienza), e la soddisfazione per il risultato costituisce il premio migliore, così come non è prevista alcuna assistenza tecnica, medica o organizzativa durante il percorso, con ogni equipaggio che deve cavarsela da solo in assoluta autonomia. Ecco allora le difficoltà a trovare carburante, officine e pezzi meccanici tra quanti si spostano ancora in cammello, ad individuare il percorso migliore in assenza di cartelli leggibili, a reperire cibo commestibile per palati occidentali, a dormire in case private e nelle yurte di feltro dei pastori nomadi, a comunicare con persone che parlano (e poco) soltanto il loro dialetto. Perché l’intento non è tanto la meta finale, quanto il percorso e le inevitabili avversità per arrivarci, capaci di generare nuove consapevolezze, una distaccata tolleranza ed una notevole crescita interiore.
A promuovere il tutto Cool Earth (www.coolearth.org),un’associazione beneficainglese attiva da un decennio, al tempo stesso umanitaria ed ecologica, il cui scopo primario consiste nella protezione delle foreste tropicali e dei suoi abitanti umani ed animali in tutti i continenti. Ma con un concetto nuovo, dinamico e diverso da quello applicato da altre associazioni ambientaliste, che acquistano terreni per creare oasi e riserve protette avulse dal territorio e dai suoi abitanti. Cool Earth finanzia infatti le popolazioni indigene per l’acquisto e la gestione da parte loro delle giungle dove hanno da sempre vissuto, ponendo così uno stop alla deforestazione in atto, creando le premesse per una loro sopravvivenza in situ e intervenendo anche con una nuova riforestazione.
Il problema della continua riduzione del manto vegetale costituisce una delle maggiori insidie per l’umanità. Solo negli ultimi 40 anni sono state distrutte la metà delle foreste tropicali presenti sul pianeta e ogni anno 25 nuovi milioni di acri – la superficie dell’Islanda – vengono abbattuti. Pur occupando soltanto il 6 % della superficie della terra, esse contengono i due terzi della sua biodiversità totale, con circa sei milioni di differenti specie animali e vegetali, la gran parte delle quali ancora da studiare per valutarne l’importanza pratica. Senza contare che ospitano, al loro interno o nei dintorni, e sfamano da sempre 350 milioni di persone, la porzione sicuramente più arretrata e debole dell’umanità. I boschi assorbono il 10 % delle emissioni di anidride carbonica prodotta dall’uomo, mentre la deforestazione immette ogni anno nell’atmosfera una quantità di CO2 superiore a quella prodotta da tutto il settore dei trasporti nel mondo. Attraverso la produzione di ossigeno, fondamentale per depurare l’aria che respiriamo, le piante rappresentano anche un importante produttore di acqua dolce, altro problema non secondario per l’umanità futura vista la sua progressiva penuria già di attualità: un acre di foresta d’alto fusto, cioè due ettari e mezzo, genera infatti in un anno ben 76 mila tonnellate d’acqua. Con le attività di raccolta fondi tipo Mongol Rally (700 sterline di iscrizione per equipaggio, oltre ad eventuali donazioni degli sponsor) finora Cool Earth è riuscita a salvare 900 mila ettari di foreste, evitando l’abbattimento di 85 milioni di alberi, offrendo una prospettiva di futuro a 65 diversi villaggi in tutti i continenti per un totale di 22.500 persone.
Marzaduri, Garbarello, Pedrieri
Ma cosa c’entra la Mongolia – tutta dominata da verdi pascoli e con la presenza di boschi soltanto al 3,8 % nella taiga settentrionale e sui monti Altaj nell’ovest – con la salvaguardia delle foreste pluviali ? C’entra, c’entra, quanto meno a livello di monito ecologico. A parte il fatto che gli attuali pascoli un tempo assai lontano, e con climi diversi, erano ricoperti da boschi, succede che millenni di sfruttamento ininterrotto da parte delle mandrie di cavalli, yak, pecore, capre e cammelli irsuti a due gobbe sta rendendo sterili e improduttivi non pochi prati,costringendo i pastori nomadi a trasferirsi altrove oppure a cambiare professione. Non è quindi da escludere che un giorno anche vicino quei pascoli ritornino ad essere boschi e foreste. Quest’anno l’equipaggio italiano di Mongol Rally, che si autodefinisce goliardicamente Italian Bastards, parla bolognese e partirà per la grande avventura il 20 luglio da sotto le Due Torri. A comporlo tre giovani dai 26 ai 35 anni, inutile dirlo tutti appassionati di viaggi insoliti, di guida fuori asfalto e di motori, sempre alla ricerca di contatti inusuali con realtà differenti: Gian Giacomo Pedrieri, il veterano, nella vita manager di prodotti alimentari, responsabile nel team dell’organizzazione e della logistica; Gian Marco Gabarello, esperto in marketing edile e navigatore; e Manuel Marzaduri, un belloccio sportivo di due metri, imprenditore immobiliare, pilota e collaudatore ben piazzato nel Campionato italiano di Rally su neve, con la funzione di responsabile tecnico e meccanico. Ognuno, ovviamente, si alternerà nella guida di una Wolksvagen Polo 1200 color verde – guarda caso – appositamente allestita con un tocco racing dagli sponsor ma, soprattutto, ricavata dall’assemblaggio di due vetture pesantemente incidentate. Un ottimo esempio di riciclaggio, buon auspicio per un rally ecologico di beneficenza. E sempre a proposito di beneficenza, qualche giorno prima della partenza l’equipaggio verrà salutato da amici, parenti e sponsor con una festa in una elegante villa della periferia bolognese, alla quale dovrebbero partecipare un migliaio di persone. Il ricavato netto sarà devoluto al gattile di Ozzano Emilia.
La Mongolia rappresenta sicuramente una meta ideale per la conclusione di un rally ambientale, passato attraverso terre incognite e poco battute dal turismo come Iran, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan. Non si tratta però di una meta facile e adatta per tutti, ma idonea solo a grandi viaggiatori capaci di apprezzarne le particolari prerogative e disposti a pagare lo scotto di enormi distanze prive di strade, di una cucina monotona e di dormire in tenda o nelle gher, le tende circolari di feltro dei nomadi. Gli infiniti spazi verdi rischiano infatti di apparire monotoni ai turisti, e privi di attrattive. In realtà questo paese, grande cinque volte l’Italia e ad un’altezza media di 1.600 m, risulta piuttosto vario, formato com’è per un terzo dal deserto del Gobi con le sue ondulate dune, da sterminate steppe desertiche, taiga e praterie ricoperte da pascoli incredibilmente fioriti e ricchi di odorose piante officinali, da montagne vulcaniche alte oltre 4.000 m con ghiacciai e deserti d’alta quota ricoperte da foreste di larici, pini e betulle, da un numero rilevante di fiumi, laghi, vulcani inattivi e sorgenti termali. Metà della popolazione sono allevatori nomadi e seminomadi che vivono nelle mobili gher la loro esistenza solitaria con la più bassa densità del pianeta (1,4 abitanti per kmq), nei rigori di un clima capace di passare dai + 40° C estivi ai – 30 invernali, quando il verde si trasmuta in una immensa coltre bianca di ghiaccio. Il cavallo, e il cammello nel deserto, sono i simboli millenari del paese, e rappresentano ancora il principale mezzo di locomozione locale. Quei cavalli di piccola taglia che i mongoli imparano a cavalcare ancor prima di camminare e che proprio queste praterie diedero i progenitori a tutti i cavalli del pianeta.
Una terra remota e molto antica, come attestano i consistenti giacimenti di resti fossili di dinosauri, considerati i più ricchi del mondo. Girando per queste contrade stupisce il fatto che un simile contesto ambientale nel 1200 riuscì a dare vita ad uno dei maggiori imperi dell’Eurasia. Il merito fu tutto di Gengis Khan, il figlio più illustre di questa terra e uno dei più geniali condottieri e politici di tutta la storia, capace di trasformare dei pastori individualisti in una invincibile armata, in grado di conquistare in pochi decenni un territorio che si estendeva dalla Cina settentrionale al mar Nero, dalla Corea alla Polonia, dall’Indocina fino alla Persia e alla Crimea. E per un secolo la Mongolia costituì l’epicentro del mondo, un crogiuolo di razze, culture e religioni diverse, meta e luogo di transito obbligato per commerci e conoscenze. Così rapidamente come era sorto, altrettanto rapidamente l’impero si dissolse e nel 1350 divenne una provincia cinese, per rimanere tale fino al 1921 quando entrò nella soffocante orbita sovietica, dalla quale si è scrollata soltanto nel 1990. Al viaggiatore colto e curioso si aprono oggi le porte di un paese fuori dal tempo, dove ammirare le vestigia del passato, dove solcare le immensità di una steppa verdissima o le dune infuocate del deserto, entrando in contatto con i suoi abitanti e scoprire i loro peculiari stili di vita come la musica, il canto, la medicina tradizionale e lo sciamanesimo, nonché il profondo senso religioso nei confronti del rinato buddismo lamaista. Specialista per i viaggi in Mongolia è il tour operator milanese I Viaggi di Maurizio Levi, tel. 02 34 93 45 28, www.viaggilevi.com.
Info: Manuel Marzaduri, tel. 389 183 81 57, manet@hotmail.it