Testo di Anna Maria Arnesano e foto di Giulio Badini
Se, superando il forte impatto mediatico negativo, un viaggiatore colto e curioso decide di visitare il Pakistan, troverà molte buone ragioni per non pentirsene, soprattutto se la scelta sarà caduta sull’estremo nord, una delle regioni meno facilmente accessibili del pianeta, in grado però di offrire visioni mozzafiato sulle più alte montagne della terra e di mettere in contatto con popolazioni decisamente interessanti che vivono da sempre isolate dal mondo e fuori dal tempo nei loro eden alpestri. Il Pakistan, grande quanto Italia e Francia, è uno stato cuscinetto di rilevante importanza strategica tra Mare Arabico (oceano Indiano) e l’interno del continente asiatico, confine tra Medio Oriente e Sudest asiatico, ma anche da sempre punto di incontro e di scontro tra Ovest ed Est grazie alle strade carovaniere che lo hanno solcato fin dall’antichità, alle popolazioni che vi si sono trasferite e agli eserciti che l’hanno conquistato, producendo una straordinaria eterogeneità etnica e culturale. Bagnato in tutta la sua lunghezza dall’Indo, capace di trasformare un deserto in una fertile pianura, confina con India, Cina, Afganistan e Iran, nomi non certo rassicuranti.
Come nazione sovrana nasce soltanto nel 1947, al momento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, per dare una patria omogenea e senza conflitti ai musulmani indiani, operazione che ha comportato un esodo biblico di 7 milioni di islamici dall’India al Pakistan e di 10 milioni di indù in senso inverso. Anche il nome è artificioso: Pakistan deriva infatti dalle tre iniziali di Punjab, Afganistan e Kashmir e dalla finale di Belucistan. Pure la capitale, Islamabad, è sorta dal nulla negli anni 70 al centro del paese come quartiere di Rawalpindi, capitale tra 1952 e 1971 in sostituzione del grande porto di Karachi, capitale tra 1948 e 1959. Paese costruito quindi sulla carta, scosso da continui colpi di stato, omicidi politici, scontri con i vicini e ingerenze straniere, ma anche di raffinata cultura – come dimostra Lahore, antica capitale dell’impero musulmano moghul – e di antichissima civiltà: nella valle dell’Indo già 5 mila anni fa era nata una delle prime culture del mondo, come attestano i resti di Moenjodaro e Harappa, città con larghe strade, fognature e case in mattoni a due piani, con una propria scrittura, una florida agricoltura irrigata e scambi commerciali a lungo raggio. Da sempre ha attirato eserciti e conquistatori: dai Persiani di Ciro il Grande ai greci di Alessandro Magno, dagli arabi a Gengis Khan, da Tamerlano agli inglesi, solo per citarne alcuni. Onore e vanto del Pakistan è la Karakorum Highway, la strada più difficile ed elevata della terra che collega la capitale alle estreme regioni settentrionali attraverso le catene del Karakorum, dell’Indukush, dell’Himalaya e del Pamir tra le più alte cime del pianeta fino a Kasghar nel Sinkiang cinese: 1.260 km di distanza fino ad un’altezza di 4.730 m del passo di Kunjerab, il valico di confine più alto del mondo, ma con un dislivello complessivo di 12.250 m. La sua costruzione, iniziata nel 1960 e conclusa nel 1986, ha richiesto l’intervento di 15 mila soldati pakistani e di 10-20 mila cinesi, con almeno 500 vittime, data la quasi impossibilità di utilizzare mezzi meccanici. Il percorso, che ricalca in parte il tracciato meridionale dell’antica carovaniera della Via della Seta, è stato infatti scavato con piccone ed esplosivo nella roccia, superando con 100 ponti vallate profondissime e ghiacciai, e 10 mila soldati lavorano tutto l’anno per tenerla sgombra da neve e frane.
Sicuramente la zona più spettacolare dal punto di vista ambientale e paesaggistico risulta quella settentrionale, al confine con il Kashmir indiano, il Sinkiang cinese e l’Afganistan, tra le più alte montagne della terra con vette superiori ai 7 ed agli 8 mila metri. Tra queste vallate pressoché inaccessibili, e oggi solo in parte toccate dalla Karakorum Highway, hanno vissuto per millenni isolate dal mondo e con una magra economia di sussistenza piccole popolazioni di diverse etnie che sono riuscite a mantenere intatte nel tempo costumi, lingue, religioni e stili di vita, tanto da rappresentare un interessantissimo caleidoscopio etnografico, oggetto di studio da parte degli antropologi. Tra i tanti meritano un cenno i Kalash delle vallate dell’Indukush verso il confine afgano e gli Hunza del Karakorum presso il confine cinese. I Kalash, 2-3 mila persone (a fine 1800 erano 100 mila) vivono di agricoltura e allevamento di capre in villaggi a 2.000 metri; le donne, molto belle e brave ballerine, vestono abiti coloratissimi con copricapi di feltro ricchi di conchiglie, campanellini, bottoni, coralli. Dai confinanti musulmani vengono chiamati con disprezzo kafiri, cioè infedeli, perché seguono una religione pagana politeista che prevede sacrifici di animali e riti orgiastici e dionisiaci; per giunta coltivano la vite, bevono vino, le donne non sono velate, anzi si truccano pesantemente, vivono libere, ballano e parlano in pubblico e possono divorziare, tutte cose inammissibili per un fondamentalista islamico. Ma c’è ancora di più: hanno pelle chiara, lineamenti fini, nasi sottili, occhi e capelli chiari tipicamente europei, parlano una lingua propria non scritta, le loro strutture sociali si basano sulla democrazia e gli dei che venerano assomigliano a quelli dell’Olimpo greco. Qualcuno vede in loro i discendenti dell’armata greca di Alessandro il Grande, che giunta all’Indo nel 325 a.C. dopo otto anni di conquiste decise di far ritorno in patria; qualcuno, per non affrontare il lungo e pericoloso viaggio, potrebbe aver deciso di fermarsi tra queste verdi montagne. Anche gli Hunza, che vivono di agricoltura e allevamento in una valle stretta e ripida a 2.500 m di quota dove si parlano ben quattro lingue diverse, sono molto diversi dagli altri montanari musulmani.
Sono infatti ismailiti, seguaci cioè di una setta sciita più esoterica che riconosce come capo spirituale il principe Kharim Aga Khan, quello della Costa Smeralda. Il fatto è che non si comportano come gli islamici: non pregano 5 volte al giorno, non si prostano a terra, bevono grappa, le donne non sono velate e hanno diritti pari agli uomini o quasi. Gli hunza sono però famosi per la loro leggendaria longevità, di parecchio oltre i 100 anni, e l’ottima salute di cui godono, immuni da parecchie malattie e da infezioni microbiche, tanto da far parlare di Sangri-la, la terra dell’eterna giovinezza. Sicuramente l’aria pulita, l’acqua di ghiacciaio ricca di minerali, il severo allenamento fisico imposto da un ambiente da capre e una dieta vegetale interrotta da un digiuno primaverile per la fine delle scorte alimentari giovano alla salute di chiunque, senza contare che l’assenza di anagrafe in alta montagna può indurre facilmente in errore sull’età reale.
L’operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34 93 45 28, www.deserti-viaggilevi.it), specializzato con il proprio catalogo “Alla scoperta dell’insolito” in percorsi di interesse ambientale ed etnografico, propone in Pakistan un itinerario di 16 giorni dedicato alla scoperta delle località più suggestive e delle popolazioni più interessanti tra le montagne e le vallate dell’Himalaya, del Karakorum e dell’Indokush. Uniche partenze con voli di linea da Milano per Islamabad, rientro da Lahore, il 6 luglio, 9 agosto e 7 settembre 2013, pernottamenti nei migliori hotel disponibili in pensione completa, accompagnatore dall’Italia.