Testo di Anna Maria Arnesano e foto di Giulio Badini
Ubicato nel punto di incontro tra Egitto, Libia e Sudan, e quindi tagliato in tre parti dai confini tracciati con il righello dai colonialisti nel 1800 senza alcun rispetto delle eminenze geografiche, si erge isolato nel nulla più assoluto uno dei più spettacolari djebel sahariani, il massiccio montuoso dell’Uweinat, un rilievo di roccia granitica e di arenaria esteso per 1.750 kmq, con un perimetro di 150 km ed un’altezza massima di 2.000 m, che nel tratto orientale ricorda le Dolomiti per le valli scavate a fondo in mezzo ad enormi rocce vulcaniche e grandi frane che hanno squarciato la montagna. Lontanissimo da tutto, dalla valle del Nilo, dai rilievi vulcanici del Tibesti e dalle oasi egiziane, libiche e sudanesi, circondato da ogni lato da enormi deserti assolutamente privi d’acqua, per arrivarci bisogna proprio andarci appositamente con un viaggio lungo e faticoso, tanto che fu scoperto dall’esploratore egiziano Hassanein Bey soltanto nel 1923, sconosciuto fino ad allora alle carte geografiche. Questi, nonché gli esploratori nei decenni successivi (tra i quali gli italiani Desio e Di Caporiacco e l’ungherese Almasy, Il paziente inglese narrato nel romanzo e nel film omonimi), vi rinvennero sorgenti, paleolaghi, boschetti di acacie e sicomori, gazzelle, mufloni e fennek e, soprattutto, reperti archeologici e un gran numero di incisioni e di pitture policrome rupestri, che ne fanno una delle più significative stazioni d’arte preistorica del Sahara. Scarse sono le immagini naturalistiche relative alla grande fauna selvatica, mentre abbondano invece quelle più tarde e schematiche del pastorale neolitico: evidentemente quando l’uomo pastore ha occupato con le proprie mandrie di buoi, capre e pecore i pochi punti d’acqua, gli animali selvatici hanno dovuto ritirarsi, ad esclusione di giraffe, struzzi, orici e antilopi, dal consumo idrico più ridotto.
Spesso le persone sono ritratte all’interno di capanne, il che ci consente di conoscere l’economia e la vita quotidiana di queste popolazioni proto-berbere. Nelle capanne si vedono oggetti di uso comune, come panieri e recipienti di terracotta, mentre dal soffitto pendono oggetti appesi con lacci. Le donne vestono un perizoma bianco o un gonnellino con cinture ricamate, mentre il resto del corpo nudo è coperto da collane, pendenti e braccialetti a braccia, polsi e caviglie. Gli uomini sono nudi, alti, spalle larghe, braccia e gambe muscolose, spesso armati di arco; alcuni portano penne bianche, forse di struzzo, in mezzo alla folta capigliatura. In talune scene di caccia gli uomini appaiono muniti di lance, giavellotti, scudi, armi ricurve e clave. Gli animali venivano spesso catturati con l’ausilio di trappole. Le numerose macine rinvenute sono riferibili più alla raccolta di cereali selvatici commestibili che non ad una vera produzione agricola. In epoca neolitica fu sicuramente un microcosmo assai vivace, punto di incontro di tradizioni e culture diverse, con un momento di maggior sviluppo tra 3.500 e 1.000 a.C. Grazie alla presenza d’acqua e di vegetazione in un circostante universo completamente arido, rappresentò sicuramente un punto di passaggio obbligato per le migrazioni e i commerci tra il Sahara centrale e il Nilo e tra il Mediterraneo e l’Africa nera. Con ogni probabilità fu abitato anche in epoca successiva e relativamente recente da tribù tebu che vi cacciavano, pascolavano gli animali e se ne servivano come base avanzata per le loro rapaci scorrerie alle oasi egiziane. All’inizio della 2° guerra mondiale ha ospitato due importanti basi militari italo-tedesche, dotate di campi di atterraggio.
Tre sono i possibili itinerari per raggiungere il Djebel Uwenait: da nord-est, partendo dalle oasi del deserto occidentale egiziano attraverso il Gran Mare di Sabbia, da nord-ovest, partendo dall’oasi libica di Cufra (ora inaccessibile), e infine da sud-est attraverso i deserti sudanesi; questo percorso, decisamente meno monotono dei precedenti, offre anche il vantaggio di condurre nel settore del massiccio più ricco di arte rupestre. Si parte dalla capitale sudanese Khartoum, toccando in successione la necropoli reale di Meroe con le sue aguzze piramidi (sito Unesco), il deserto del Bayuda con i suoi coni vulcanici e i nomadi bisharin con le loro mandrie ai pozzi, le tombe affrescate di stile egizio di El Kurru, la foresta pietrificata nubiana con enormi tronchi fossili, i villaggi con le bianche case dipinte lungo il Nilo, il tempio di Soleb, maggior monumento egizio in Nubia. Si attraversa quindi il deserto occidentale sudanese, uno dei tratti meno conosciuti del Sahara; si tratta di un deserto totale, con pochissime tracce di vita vegetale e animale e del passaggio di veicoli. In compenso offre tutte le forme più spettacolari del Sahara: cordoni di dune estese all’infinito, pianure sabbiose, isolati pinnacoli di roccia erosi dal vento, estesi raggruppamenti di massi di granito tondeggianti sovrapposti gli uni agli altri, diversi paleosuoli.
Dopo la disabitata oasi di Selima, un tempo importante nodo carovaniero, si raggiunge infine l’Uweinat. Sulla via del ritorno sosta all’isolato massiccio granitico del Djebel Kissu, anch’esso ricco di testimonianze preistoriche, quindi si incrocia il Darb El Arbain, l’importante via carovaniera che collegava le savane del Sudan centrale con l’alto Egitto, ancora disseminata di scheletri di cammelli calcinati al sole, attraversando infine un antico e inaridito affluente del Nilo ora popolato da nomadi bisharin con le loro mandrie.
L’operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel.02 34 93 45 28, www.deserti-viaggilevi.it), unico in Italia specializzato da 30 anni in viaggi e spedizioni nei deserti di tutto il mondo, propone come novità una spedizione sahariana di 16 giorni e 2.000 km da Khartoum al Djebel Uweinat. Uniche partenze con voli di linea da Milano e Roma il 17 novembre, 22 dicembre e 16 marzo 2013, pernottamenti in tenda.