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Legno, cm 41x17x19 -
Musma
Nelle sale del Museo Fazzini di Assisi, è in atto la mostra dedicata a Giacinto Cerone, lo scultore, già allievo di Fazzini nell?Accademia di Belle Arti di Roma, scomparso nel 2004.
La mostra, a cura di Giuseppe Appella, accoglie il Presepe drammatico (25 personaggi in legno e gesso creati nel 1996), una serie di sculture e disegni datati 1975-2004 e una selezione di immagini e documenti utili per mettere in luce il talento dell?artista lucano.
Negli ultimi anni della sua vita, Giacinto Cerone, coltivava con maggiore frequenza il metodo dell?interiorità, del ripiegamento intimo. Aveva fissato un rapporto intenso e fecondo con la poesia nel momento preciso in cui considerava raggiunta quell?unità di libertà e di necessità indispensabile al nucleo fondante dell?esperienza artistica e alla capacità di averla sottratta al guscio accademico, a una sorta di sotterranea religiosità del fare che da una parte traeva vitalità dall?idea della ?statua? e dall?altra si perdeva nel furore di riconoscersi nel suo destino di scultore quotidianamente assiso sulla propria voragine. L?opera radicata nella vita, dunque, che non diventa mai passato, che si evolve, accompagna e prolunga la quotidianità, ristabilisce i collegamenti dopo le inevitabili cadute, assicura fluidità e segno di appartenenza alle più piccole norme di esistenza chiarendo quanto lo spirito dello scultore contemporaneo confermi e non neghi il principio d?identità.
Roma 1996,
Legno, cm 120x31x25
– Famiglia -
Foto Giorgio Benni
Cerone, nonostante abbia cercato nei residui esterni al proprio agire le conferme a quanto andava facendo, ha vissuto questa esperienza come procedimento per accettare l?essenziale persistenza della forma nell?ardore espressivo che lo consumava. Una straordinaria attitudine a cogliere le occasioni lo metteva in rapporto diretto con i legni di Pericle Fazzini e di Arturo Martini prima, con le terrecotte, i cementi e le ceramiche policrome di Lucio Fontana poi, per farne i propulsori, se non i suscitatori, del culto per l?antica Ellade e di un interesse per i ritmi dialettici del barocco da cui far scaturire un messaggio nuovo che fosse, al tempo stesso, una diretta manifestazione del suo essere artista. In questo senso, la scultura diventa la coscienza della sua ricerca di poesia, di voler rimanere integro e totale nelle folgorazioni ricevute maneggiando terra e legno, gesso e plastica, vetroresina, alluminio e ghisa, ceramica e marmo, bende e stracci, i materiali in cui, nei due decenni di lavoro, convergevano, di volta in volta, tutte le sue energie, l?abilità di assorbire e superare quanto intorno a lui si muoveva e andava sistemandosi nella sostanza di emblemi araldici, di miti documentabili e flagranti.
Alcuni disegni del 1975-1984, evidenziano le caratteristiche dei suoi interessi e del modo di guardare Fazzini degli studi per la Danza, La Tempesta e il Ritratto del poeta Ungaretti (1933-1936) per arrivare a capire Brancusi o a leggere Boccioni in cui scova l?esigenza, nello stesso tempo meditata e come nata all?istante, di realizzare forme nello spazio mediante la compenetrazione dei piani, così che esse assumano la libertà di oggetti in movimento, senza rimanenti sensibilità di superfici impressioniste.
Roma 2003,
Legno, cm 210x60x70
– Famiglia -
Foto Giorgio Benni
Subito dopo, la natura di mediazione presente nei problemi espressivi di quegli anni, tesi a sciogliere nodi e articolazioni al limite del puntiglio, sposta considerevolmente la soglia di proposizione per una tendenza ad arricchirsi non con la ragione (?La ragione non crea?, diceva Fontana) ma con la totalità delle sue facoltà sviluppate attraverso la somma di conoscenze acquisiste. Ecco, allora, l?impetuosità di Fazzini, l?analisi di Boccioni e la sintesi di Fontana, la meditazione di Licini e la spontaneità di Leoncillo, la costruzione di Melotti e la sensazione di Novelli assunti come valori che debbono concorrere all?articolazione logica di quell?unità funzionale che è la scultura.
Il presupposto, se torniamo a ripensare le tappe più evidenti del suo percorso, negli anni in cui isola la sua fantasia in modi autonomi e anche indipendenti da puntelli internazionali di linguaggio quali Kounellis e Penone, Marisa Merz e Pistoletto che, tra il 1980 e il 1984, ripercorrendo le scoperte dell?uomo, progettano il ritrovamento dell?integrità di una immagine della nostra cultura, il presupposto è la definizione di un canone di purezza che nello stesso uso del gesso, quasi sempre bianco, nutre e prepara l?elemento metafisico, di magia, senza rifiutarsi allo schema neoclassico, alla trascrizione del frammento, al calco, all?archetipo, al dio di legno caro a Pascali, che vince la paura con l?opposto della logica e della coscienza.
La mostra è accompagnata da un catalogo pubblicato dall?Editore De Luca nella collana ?Documenti?, dedicata agli artisti che espongono nel Museo Fazzini e dal volumetto Il presepe drammatico di Giacinto Cerone pubblicato dalle Edizioni della Cometa.
Orario: 10/13 ? 16/19 (lunedì chiuso)
Ingresso (al Museo e alla mostra): euro 5,00 ? ridotto euro 3,00
Museo Pericle Fazzini
Palazzo del Capitano del Perdono ? Piazza Garibaldi, 1/c ? 06081 ASSISI
Tel. e fax 075/8044586 ? http;//museo.periclrfazzini.it ? info@periclefazzini.it
Fondazione Pericle Fazzini ? Via Margutta, 61 Roma ? tal. E fax 06/3207763
Ufficio Stampa:
De Luca Comunicazioni, Roma
Tel. e fax 06/44237540 ? Cell. 333/8264292 ? E-mail: m.deluca33@virgilio.itL’ APPROFONDIMENTO DI GIUSEPPE APPELLA
GIACINTO CERONE E LA SCULTURA COME ARDORE ESPRESSIVO
aperte le finestre del cielo
e lasciato libero lo spirito della notte
assalitore del cielo, che ha la nostra terra
sedotto, con molte lingue, impoetabili, e
rotolato la maceria
fino a quest?ora.
Ma se viene ciò che voglio,
Friedrich Hölderlin
Negli ultimi anni della sua vita, Giacinto Cerone, coltivava con maggiore frequenza il metodo dell?interiorità, del ripiegamento intimo. Aveva fissato un rapporto intenso e fecondo con la poesia nel momento preciso in cui considerava raggiunta quell?unità di libertà e di necessità indispensabile al nucleo fondante dell?esperienza artistica e alla capacità di averla sottratta al guscio accademico, a una sorta di sotterranea religiosità del fare che da una parte traeva vitalità dall?idea della ?statua? e dall?altra si perdeva nel furore di riconoscersi nel suo destino di scultore quotidianamente assiso sulla propria voragine. L?opera radicata nella vita, dunque, che non diventa mai passato, che si evolve, accompagna e prolunga la quotidianità, ristabilisce i collegamenti dopo le inevitabili cadute, assicura fluidità e segno di appartenenza alle più piccole norme di esistenza chiarendo quanto lo spirito dello scultore contemporaneo confermi e non neghi il principio d?identità.
Cerone, nonostante abbia cercato nei residui esterni al proprio agire le conferme a quanto andava facendo, ha vissuto questa esperienza come procedimento per accettare l?essenziale persistenza della forma nell?ardore espressivo che lo consumava. Una straordinaria attitudine a cogliere le occasioni lo metteva in rapporto diretto con i legni di Pericle Fazzini e di Arturo Martini prima, con le terrecotte, i cementi e le ceramiche policrome di Lucio Fontana poi, per farne i propulsori, se non i suscitatori, del culto per l?antica Ellade e di un interesse per i ritmi dialettici del barocco da cui far scaturire un messaggio nuovo che fosse, al tempo stesso, una diretta manifestazione del suo essere artista. In questo senso la scultura diventa la coscienza della sua ricerca di poesia, di voler rimanere integro e totale nelle folgorazioni ricevute maneggiando terra e legno, gesso e plastica, vetroresina, alluminio e ghisa, ceramica e marmo, bende e stracci, materiali in cui, nei due decenni di lavoro, convergevano, di volta in volta, tutte le sue energie, l?abilità di assorbire e superare quanto intorno a lui si muoveva e andava sistemandosi nella sostanza di emblemi araldici, di miti documentabili e flagranti.
Alcuni disegni del 1975-1984, evidenziano le caratteristiche dei suoi interessi e del modo di guardare Fazzini degli studi per la Danza, La Tempesta e il Ritratto del poeta Ungaretti (1933-1936) per arrivare a capire Brancusi o a leggere Boccioni in cui scova l?esigenza, nello stesso tempo meditata e come nata all?istante, di realizzare forme nello spazio mediante la compenetrazione dei piani, così che esse assumano la libertà di oggetti in movimento, senza residue sensibilità di superfici impressioniste. Subito dopo, la natura di mediazione presente nei problemi espressivi di quegli anni, tesi a sciogliere nodi e articolazioni al limite del puntiglio, sposta considerevolmente la soglia di proposizione per una tendenza ad arricchirsi non con la ragione (?La ragione non crea?, diceva Fontana) ma con la totalità delle sue facoltà sviluppate attraverso la somma di conoscenze acquisite. Ecco, allora, l?impetuosità di Fazzini, l?analisi di Boccioni e la sintesi di Fontana, la meditazione di Licini e la spontaneità di Leoncillo, la costruzione di Melotti e la sensazione di Novelli assunti come valori che debbono concorrere all?articolazione logica di quell?unità funzionale che è la scultura.
Il presupposto, se torniamo a ripensare le tappe più evidenti del suo percorso, negli anni in cui isola la sua fantasia in modi autonomi e anche indipendenti da puntelli internazionali di linguaggio quali Kounellis e Penone, Marisa Merz e Pistoletto che, tra il 1980 e il 1984, ripercorrendo le scoperte dell?uomo, progettano il ritrovamento dell?integrità di una immagine della nostra cultura, il presupposto è la definizione di un canone di purezza che nello stesso uso del gesso, quasi sempre bianco, nutre e prepara l?elemento metafisico, di magia, senza rifiutarsi allo schema neoclassico, alla trascrizione del frammento, al calco, all?archetipo, al dio di legno caro a Pascali, che vince la paura con l?opposto della logica e della coscienza.
L?albero di sette metri o il grande gesto vegetale di Penone, la natività di Pistoletto, diventano in Cerone un piccolo bastone che segna un muro diroccato o un presepe drammatico che abolisce gli schemi logici e gli appigli scenici, un paesaggio sott?acqua o una scala santa, il grande carciofo di Tor Bella Monaca o un gruppo di calici piangenti, Ortensia solenne e solitaria, senza dimenticare la Maàra che nel dialetto del suo paese lucano, Melfi, indica la parte interna del focolare, non dissimile dalla nicchia delle chiese romaniche, dove la legna si fa cenere, dopo essere stata carbone ardente, e si raccolgono lampi d?occhi, pensieri, i gesti della vita e della morte.
Questo animus di raffinatezza primitiva aiuta Cerone, in più occasioni, a cambiare le carte in tavola, a sfuggire a ogni perdurante contemporaneità di posizioni di gusto con modificazioni di valore strettamente formale che non gli cancellino il tono iniziale di una congenita sperimentazione, soprattutto tecnica e di materie, e il raptus visionario. Non casuale, quindi, è il ritmo dialettico imposto a tutto ciò che esce dalle sue mani, viene fuori a forza di essere toccato, manipolato, isolato dal suo contesto abituale, tagliato, rivisitato, accostato, rappreso, mutato, consumato, graffiato, allontanato dallo sguardo.
Un linguaggio di materiali, immagini pronte e oggetti rinvenuti, in sostanza la struttura visibile del palesamento, racconta se stesso mentre penetra come un bisturi nella realtà e ne mette a nudo le anatomie segrete, togliendole alla loro staticità, coprendole di improvvise frammentarie insorgenze della memoria e al tempo stesso di lontananza, facendone emergere l?essenza e la primarietà attraverso il disegno.
Cerone disegna per riconoscere la forma, individuarne la sostanza, materializzarne la fisicità concentrandosi sull?istante liberatorio del colpo fulmineo di matita che fissa la trama del delicatissimo tessuto di segno e significato, sui tanti punti che stabiliscono il cammino della statua, sulla spontaneità progettuale che alza solide e pesanti strutture architettoniche per rispondere ai conflitti dei materiali percettivi, agli indizi di contraddizione, di trasgressioni, di deliri, di elementi autobiografici di luoghi e di eventi, fusi in un corpo vibratile. L?evocazione di uno spazio, di un?idea, delle parti costitutive e delle connessioni, genera l?immagine, la carica di energia che, a sua volta, dispone il ritmo interno della scultura, la sua capacità ?diveniente? di trapassare da un?opera all?altra, di far convivere intimamente l?accento tragico con quello lirico.
Si veda a questo riguardo come l?immagine e l?idea di Rose Selavie (1989) si incarni in Grano per una volta (1996), fiorisca di evocazioni affettive, e si avrà una chiave fondamentale della struttura triadica della scultura di Cerone, iniziata con una sosta felice, contemplativa, sul materiale prescelto, sviluppata in cadenze risolventi e conclusa, senza indugio alcuno, buttando un ponte tra la visione ricevuta e l?apparizione della stele tragica e fuggente come un monumento funebre. Il tragitto, fissato plasticamente, momento dopo momento, non cede di un passo alle tentazioni che gli provengono dalla letteratura e dalla decorazione-guarnizione che, con irruenza fantastica, stende sul gesso fiammelle di un notturno cimitero marino e nodi o fiocchi di una promessa dimenticata, pampini d?uva e serti di spighe, collane di pigne come bombe a mano, fresche ombre d?edera e sensuali trame di merletti, fiori recisi e ortaggi imbalsamati, impronte di scarpe o di foglie di cavolo in perenne metamorfosi. Queste ultime sono il modo più rapido per placare la tensione tragica, il sentimento mistico che le opprime, per vincere l?indugio che frappone ostacoli a quanto abitualmente scandisce la soluzione dei problemi, per rientrare nella misura dell?intuizione intellettuale fatta metafora della poesia dell?angoscia.
L?intuizione, in Cerone, non è diversa dalla folgorazione poetica e abbatte tutti i muri che dividono i linguaggi. In una poesia scritta per Il presepe drammatico, nel 1996, chiede che ?l?anima scatti libera dal labirinto della forma, / e novella cometa / trabocchi di luce in lontananza?. Nel breve spazio di tempo della più agitata opposizione tra forma e contenuto, sotto l?impulso dei sommovimenti interiori, attende che scocchi la scintilla liberatoria che, sopportando le momentanee imperfezioni, svincoli l?immagine dall?immobilità, ne faccia un processo vivo di infinita trasmutazione, secondo la misura e il modo che l?opera esige, trasformando in leggerezza ciò che era solo veemenza, in contemplazione l?enfasi, in fluida ed equilibrata unità compositiva tutte le soluzioni tenui, smorzate o preordinate.
Questo cambiamento di un elemento in un altro, non solo di carattere pratico, viene utilizzato, ad esempio, per strappare il particolare della scultura dalla schiavitù di un centro tradizionale. Il grumo di gesso sul piedistallo di Costa d?Avorio (1992-1993), la finestra che si apre sul petto di San Lorenzo (1993), la segnatura della fila sconnessa di tavole che innalzano il Paesaggio sott?acqua (1995), i ghigni dei venti allucinati personaggi del presepe drammatico, le crepe del legno che profilano i due cardinali (2003), i fondi acquarellati dei disegni degli ultimi mesi di vita, sono una evidente spoliazione di universalità a favore di quella elementarità che scroscia nella dichiarazione rilasciata nel 2000 per il n. 3 dei ?quaderni di scultura contemporanea?: ?Ho passeggiato a lungo per trovare una grotta buia, ho acceso un fuoco per procurare delle ombre, ho mimato le mie sculture con il mio corpo proiettandone l?ombra sulla lontana parete frontale: era l?ombra delle mie sculture. Mi accontentavo dello spettacolo che io stesso avevo procurato. Il nero delle ombre era l?opposto del bianco delle mie sculture. La consistenza dell?ombra era la consistenza della parete su cui essa si proiettava. Stupore! Non avevo più bisogno dei miei scalpelli, lontani dalla realtà. Si vive meglio oppure dalla realtà oggettiva si acquista una conoscenza sensibile? La scultura, ahimé, è realtà. Quanto corpo avevano quelle ombre e come potevano mutare di colore, di forma, di sostanza. [?] Non voglio più immagini, voglio oggetti, simulacri di un mondo visibile?.
E cos?altro sono, se non arcane calamitazioni di significato, statue raffiguranti divinità, eroi e entità astratte di oggi, Vita d?Ofelia (1993), Stele bucolica, Calcutta e Paesaggio tettonico (1994), Fuoco e Rosa mistica (1995), San Sebastiano (1996), Maternità della datura (1998), Scala Santa, Inverno ateniese e Vocazione (1999), Sposa (2000), Crux (2001), i disegni e le ceramiche raccolti sotto il titolo Sui sentieri di Ho Chi Minh (2003)? Spesso hanno le medesime caratteristiche dei capitelli figurati della chiesa della Trinità di Venosa, dei legni che Giovanni Meridiano da Nola, nella prima metà del Cinquecento, dedicò a S. Sebastiano, delle statue in cartapesta, degli intagli lignei, degli oggetti liturgici che la devozione popolare volle nelle chiese di S. Antonio e dei Cappuccini, nell?Episcopio e nel Castello di Melfi, nella Chiesa Parrocchiale e nel Santuario di S. Maria d?Orsoleo in S. Arcangelo.
C?è, nel rapporto, quasi una circolarità dell?intervallo estetico che perfeziona il tragico per mezzo del lirico e impone alla scultura un suo ritmo altrimenti disperso nelle mille esaltazioni, disancorate ed erratiche, che invadono le superfici risolte, alla fine, con una operazione mistica: determinando, in seguito a molte prove e a molte osservazioni, le varie tensioni della sua abilità, scoprendo il tutto nel particolare che riordina interiormente quanto l?ebrietà ha sconvolto.
In questo processo creativo, che elabora, soprattutto nella ceramica, un gusto schematico di antitesi e di sintesi, di potere compositivo, analogico, l?astratto è un momento necessario, simile alla nota all?inizio di una melodia con accento debole che si appoggia all?accento forte della battuta successiva o alla sillaba finale di un verso ipermetro che, staccata da esso, si unisce nella lettura al verso successivo. Come nella battuta definitiva l?astratto si corporeizza in suono-parola, così nella scultura l?astratto, portato a rappresentare l?elemento arido, si fonde con l?organico dando un senso alla successione dei momenti in cui il frammento coglie il ritmo che anima e dà un senso ai gesti che abbracciano e significano la forma, alla levità e al silenzio che, in armonica contrapposizione, invade quei ?simulacri di un mondo visibile? che sconvolgevano i suoi piani e lo inducevano ?a pensare? sui versi di Albino Pierro: ?Ié chiange notte e gghiurne, / e nun mi sèntese; / camine ore e ore mmenz? ?a chèse, / e pò?si ièsse trove a tutt?i bbànne / nu fume ca ti cìchete e nu vente / ca tàgghiete fiscanne com?i canne? [?Io piango notte e giorno, / e non mi senti; / cammino ore e ore per la casa, / e poi se esco trovo da per tutto / un fumo che ti acceca e un vento / che taglia fischiando come le canne?].