CECILIA MARTINO
Il dramma della memoria aderisce al fondo dionisiaco che è in ognuno di noi. Esprimere questo fondo in visioni, al di fuori dei concetti. Questo è il teatro.
In questa frase del filosofo amico Giorgio Colli, nell?essenzialità di ciò che esprime, c?è tutto Alessandro Fersen. C?è la sua vocazione filosofica, l?indagine antropologica delegata all?espressione teatrale, la poesia di una missione che nasconde dietro al sorriso rassicurante, quel sorriso del dottor Fersen, tratti di utopia visionaria.
Difficile riassumere, scrivendo, le caratteristiche di una personalità che le più varie testimonianze di amici, ex-allievi, familiari e conoscenti, hanno riportato a voce commossa nel convegno a lui dedicato, toccando frementi corde, le più intime, che difficilmente un testo scritto può far vibrare. Mi ritrovo, in fondo, dovendo dipingere un ritratto di Alessandro Fersen, di fronte allo stesso limite che egli stesso intendeva superare, il limite della parola incapace di arrivare dove inizia la profondità ombrosa dell?indicibile umano.
Fersen ha presto trovato nell?espressione teatrale un mezzo adeguato per raggiungere un fine extra-teatrale: la ricerca dell?interiorità umana, svuotata dai limiti di una coscienza carica di condizionamenti sociali, linguistici e mentali. Scavare nel profondo, nella complessità dell?animo umano in una sorta di allargamento della coscienza, di intensificazione vitale, per approdare alla dimensione originaria, e dell?uomo e del teatro, quella precedente alla ?caduta? di heideggeriana memoria, nel regno della rappresentazione oggettivante. E? tutto condensato qui il pathos della ricerca ferseniana, umana prima che teatrale, che è dramma autenticamente umano in quanto riferito a quel trapasso di civiltà che, con il mondo moderno, ha sostituito l?antica unità dell?uomo greco (dell?Essere) con la duplicità dell?uomo cartesiano, così bravo a rappresentare il mondo della scienza e della ragione con la ragione, da dimenticarsi che la pienezza della vita, diversamente dalla semplice esistenza, non ammette primati (dell?uno o dell?altro elemento della dicotomia, corpo/mente, ragione/sentimento) ma richiede complessità, comunione. L?indagine di questa complessità, insieme alla dichiarazione di una sua necessità antropologica, è stata la vocazione che ha accompagnato tutta la vita di Fersen, per questo giustamente definito il maestro sapiente, incarnazione dello spirito socratico nei tempi moderni.
Sono tante le connessioni con il vecchio saggio greco che, a sentir parlare di Fersen, saltano alla mente. La ricerca, prima di tutto. L?indagine come elemento euristico di disvelamento della verità, una verità non imposta dai dettami di una ragione a priori, piuttosto scaturita maieuticamente dal dialogo reciproco in cui il logos diventa essenzialmente strumento di approfondimento personale. Conosci te stesso, la massima sapienza greca si riassume in questa dichiarazione di fede, e di speranza al tempo stesso, nell?interiorità come portatrice di una consapevolezza più alta, totale e originaria. Tutta l?attività di Fersen, che come tale non si può definire solamente teatrale nell?impossibilità di racchiuderla in definizioni vincolanti, è una ricerca nel profondo del profondo, che si traduce nel campo dell?espressione artistica, nell?esplorazione dei confini del teatro, suggerendo un?equivalenza fin troppo evidente tra teatro e vita, attore e uomo, dove l?elemento artefatto della rappresentazione (il più sensibilmente legato alla stessa nozione di spettacolo teatrale) cade, si annulla nella dinamica esperenziale che, nella prospettiva di Fersen, accompagna inesorabilmente il lavoro teatrale, dell?uomo su se stesso. Ma ha fatto anche di più e qui, se vogliamo, cade parzialmente la pur illuminante analogia con Socrate. Fersen, richiamandosi a esperienze concrete da lui personalmente vissute a contatto con comunità primitive, riconosce i limiti della parola, quel logos socratico che ha fondato il paradigma logocentrico della nostra civiltà occidentale e che lo stesso Socrate pone a fondamento della verità, non senza riserve (quel ?demone? che lo invade non è forse la più geniale intuizione di un visionario?), e li supera riportandosi alle origini mitiche e rituali dell?espressione umana. Tornare alle origini ? di tutto, del teatro, della coscienza, della comunicazione ? vuol dire per Fersen retrocedere nella dimensione prelinguistica e preconcettuale, ?l?altra mente dell?uomo?, accedendovi mediante i canali non convenzionali della trance e della possessione.
Solo qui, nel ?fondo dionisiaco che è in ognuno di noi? dove alberga il demone socratico, risiede la verità autentica, non precostituita da nessuna epistemologia dominante, perché fuori dalla tirannia della storia. Qui, in fondo, è la libertà dell?uomo e che altro può essere la ricerca ferseniana del ?mnemodramma? se non una chiave di accesso alla più alta delle aspirazioni umane, la libertà?
Il dramma della memoria (mnemodramma) è il pathos di un ritorno alle origini che sospende la consequenzialità dell?esistenza approdando alla pluridimensionalità della vita in una proiezione onirica dove ? attraverso il gioco e l?ironia, altri elementi cari alla sapienza greca ? , si ritrova l?io profondo di ciascuno di noi. Questa dimensione umanistica della complessità interiore dell?uomo, di derivazione nietzschiana, che mira a enfatizzare l??identità della specie? auspicando una ?specie più consapevole?, è il lato profondamente umano di Fersen che ha trovato nell?espressione teatrale il modo migliore per esprimersi ma, come più volte ripetuto, al di là di un progetto artistico con finalità esclusivamente artistiche. Il progetto ferseniano si risolve nella necessità, antropologica prima che teatrale, di vivere, o meglio di ricominciare a vivere, a sentire, a provare emozioni autentiche, nella consapevolezza dell?impoverimento emotivo dell?uomo moderno ridotto ?a una dimensione? (Marcuse). In nome di questa consapevolezza da grande pensatore qual era, Fersen non ha mai scelto, ad esempio, di appiattirsi in una cultura specifica ma di mantenere ben vive le sue origini polacche, pur rimanendo sempre aperto a qualsiasi interpretazione del mondo. ?Un italiano non italiano?, come è stato più volte definito, suggerisce in modo esemplare la personalità dialettica di Fersen, un uomo talmente avido di sapere da rispettare il sapere, mantenendolo sempre vivo, vivo perchè aperto e mai teoreticizzato.
Si chiude con un?aporia, nuovamente socratica, il cerchio della vita di Fersen. L?uomo che amava sapere e amava scrivere più di ogni altra cosa, ha scritto moltissimo pubblicando quasi niente. Ma a noi piace vedere in questo finale l?elogio di un grande uomo alla vita. La vita o si vive o si scrive, ci ricorda Pirandello. Fersen va oltre questa dicotomia mantenendo la scrittura al livello originario, senza alcuna finalità teoretica, un livello dove scrittura e vita evidentemente coincidono. Una scrittura senza letteratura è l?ennesimo atto di liberazione dell?uomo, un grido all?autenticità come resistenza agli automatismi e sospensione della consequenzialità temporale. È scrittura rammemorante, dove il dramma della memoria come operazione vitale si scontra con l?elemento suo più ostile, la parola, e lo supera nella sua valenza euristica antidogmatica che schiude infiniti orizzonti di senso con il sottile gioco dell?ironia, da sempre nemica del senso comune. Il cerchio si chiude là dove Fersen apre nuove prospettive, quelle concesse dalla sua filosofia teatrale dove la psicotecnica attoriale del mnemodramma coincide con il delirio esistenziale dell?uomo alla ricerca di se stesso.